Cos’è la frustazione?

Frustrazione

cos'è la frustazione

La frustrazione è un sentimento di fallimento determinato dalla mancata soddisfazione di bisogni e desideri, molto affine alla delusione. Questo sentimento genera rabbia o tristezza, inoltre qualsiasi esperienza simile al fallimento causerà angoscia; questo dolore porterà la persona a rischiare sempre di meno nella vita e ad accontentarsi, anche se non soddisfatto, pur di evitare il dolore della frustrazione. C’è un aspetto positivo della frustrazione, cioè il fatto che attraverso di essa si impara a moderare le proprie pretese e a migliorare ciò che si ha già, quindi in essa, secondo la psicoanalisi, c’è una funzione di adattamento alla realtà (Slepoj, 2020).

Chi si sente frustrato al punto da accumulare molto dolore dentro di sé, cercherà sollievo in ogni modo ricorrendo anche a droghe, alcol, gioco ecc. Lo schema paralizzante è quello di pensare che ciò che si vuole serva sempre davvero e debba arrivare immediatamente, mentre quando una cosa non funziona si può cambiare.

La realtà è che mancano i mezzi interiori per affrontarla, la capacità di apprendere nuove prospettive, fiducia e pazienza.

Nelle relazioni la frustrazione può determinare reazioni che sono proiezioni (Martina, 2007), in cui si proietta sull’altro il proprio dolore, ma è solo nella relazione che si può tentare di raggiungere una maturità relazionale (Andreoli, 2011), quindi è nello “starci” che si possono apprendere e affinare le proprie capacità emotive.

Antidoto alla frustrazione nelle relazioni è l’assertività (Nanetti, 2002), cioè la capacità di farsi valere pur rispettando gli altri. L’affermazione di se stessi è legata al modo in cui interpretiamo le situazioni difficili, c’è una responsabilità nostra, nelle valutazioni che facciamo il problema infatti non sono gli altri ma le nostre convinzioni irrazionali o le nostre reazioni inadeguate. Relazioni migliori le possiamo avere se impariamo ad esprimerci senza sensi di colpa, a dichiarare i nostri bisogni in modo libero e spontaneo, senza né compiacere né aggredire. È necessario affermare se stessi per essere se stessi. Chi è assertivo cerca la propria affermazione senza aggredire né violare gli altri, questo atteggiamento conduce alla verità e alla coerenza. I propri pensieri vengono espressi senza ansia, senza aggressività, c’è il rispetto per l’altro e non la deferenza. Questo non significa che la persona assertiva sia sempre vincente e che sa sempre farsi valere, ma è colui che è in contatto con i propri bisogni e per questo sa essere se stesso, anche nel caso in cui per gli altri queste non sono manifestazioni di successo. Qui ci si inerpica nel discorso profondo su cosa significhi essere liberi, quindi cosa sia la libertà. La persona libera non agisce per adeguarsi agli altri né in modo aggressivo per imporsi agli altri, né fugge da doveri e responsabilità, ma si muove nell’azione perché spinto fortemente dai propri desideri. I desideri non sono bisogni, ma qualcosa che vogliamo a cui abbiamo dedicato un momento profondo di discernimento, cioè riflessione dentro di noi, e che abbiamo liberato dalla paura. Ogni nostro desiderio è immerso nel nostro senso della vita, chi non lo possiede diventa un eterno insoddisfatto e ogni difficoltà fonte di frustrazione.

La felicità non è legata ai se, cioè “se succede quella determinata cosa allora sarò felice”, quindi spostata nel futuro e condizionata, ma è legata al presente, libera, espressione di quella verità conquistata dalla risposta ai numerosi interrogativi che abitano l’animo umano e ne costruiscono il presente, l’agire avviene sulla base di profonde convinzioni, ecco che non c’è bisogno di spostare nel futuro la propria felicità. Il sapersi prendere responsabilità non è condizionato dalla fuga, perché la persona sa ciò che vuole, gli ha attribuito un valore profondo, meditato e non ha bisogno di scappare. Il sapere ciò che si vuole porta ad avere delle relazioni con gli altri autentiche, ma anche con se stessi. Da chiarire è il fatto che autenticità non è spontaneità irriflessiva (ibidem), ma è saper relazionarci con l’altro tenendo conto delle nostre convinzioni e dei vincoli che l’altro ci pone con il suo modo di essere, quindi non è essere se stessi con tutti e senza limiti. Nell’incontro con l’altro a volte siamo tenuti a sacrificare una parte di noi stessi, significa saper conciliare i nostri ruoli con la nostra identità (es. insegnanti, genitori…), tutto ciò non deve però andare a compromettere il nostro equilibrio interiore, perché in quel caso verrebbe compromessa l’assertività, ci sarebbe troppo un ripiegamento verso l’altro in una forma di compiacimento e verremmo sbalzati subito fuori da noi stessi, portandoci a svalutarci.

In definitiva essere se stessi significa conoscersi profondamente, aver scelto quali desideri, valori devono abitare e dirigere la nostra anima, nel farlo non è necessario calpestare gli altri, ignorarli, perché è sempre dalla relazione che traiamo conferma della validità e della profondità delle nostre scelte e possiamo verificare la nostra autenticità. Allo stesso tempo considerare gli altri non significa appiattirci e compiacere, quindi saper imparare a non piacere sempre a tutti e a non far dipendere le nostre scelte da quello che pensano gli altri, anche per un semplice motivo, siamo noi che dobbiamo poi vivere le conseguenze delle nostre azioni e se dentro di noi non abbiamo gli strumenti per sopportare il peso delle conseguenze delle azioni chi li vivrà per noi? le persone a cui volevamo compiacere? I protagonisti della nostra vita siamo noi e solo noi, gli altri sono importanti perché ci aiutano a tirare fuori ciò abbiamo dentro e costruire le fondamenta della nostra anima sulla quale poter arrivare ad essere noi stessi. È in questo essere noi stessi che possiamo dare un contributo al mondo, alle persone che ci incontrano ed è quello a cui la vita ci chiama, perché non siamo replicanti ma geni, artisti in grado di creare un capolavoro destinato a illuminare la vita di ogni tempo e spazio.

 

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Stefania de ieso

Pedagogista-Educatrice professionale

Amo insegnare aiutando lo studente in tutte le sue difficoltà, trasmettendogli gli strumenti per superare le proprie lacune.


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Che cos’è l’ansia?

Che cos'è l'ansia?

Stress e ansia

Che cos’è l’ansia? È quell’emozione che proviamo quando sentiamo avvicinarsi una minaccia, quando vediamo il futuro in modo negativo e di conseguenza cerchiamo di prepararci ad affrontarlo. L’ansia compare prima nella mente con un nervosismo e poi nel corpo con un mal di testa, dolori allo stomaco, sudore, ecc…(Stamateas, 2013)

L’ansia ha una sua utilità, perché ci permette di affrontare una situazione minacciosa, un pericolo. Se stiamo preparando un esame, per esempio l’ansia ci spingerà a studiare di più e meglio.

Quando l’ansia diventa cronica, allora perde la sua utilità e diventa un’emozione molesta che può condizionare la vita. La persona si sente minacciata da ogni esperienza nuova, da ogni cambiamento, e ogni evento nuovo diventa una sofferenza, quindi l’ansia diventa un eccessivo timore e irrazionale (ibidem).

Oggi noi tutti viviamo costantemente in una corsa contro il tempo e non abbiamo più una reale percezione di noi stessi, questo perché continuiamo ad ignorare i segnali del nostro corpo. Il corpo ha una naturale tendenza a ripristinare il suo equilibrio neurovegetativo, ma per fare ciò ha bisogno di fermarsi, invece la mente continua a chiedere (Maietta, 2007), forse potremmo dire a pretendere di “fare cose”. Cosa succede in queste situazioni? Il corpo inizia a cedere, ad urlare oserei dire, per farsi sentire, non dimentichiamo che esso è il teatro dell’anima, quindi assistiamo ad una reattività gastrointestinale e ad effetti sul sistema neuroendocrino e immunitario, con conseguenti patologie tumorali, respiratorie, nevrosi organiche (palpitazioni, tensione muscolare). In poche parole il corpo alla lunga si ammala.

Quello di cui sto parlando è un tipo di ansia che si è cronicizzata, invalidante. Ad un certo punto si incominciano ad alterare anche le relazioni, perché si chiede agli altri di seguire quel ritmo che tanto tormenta, questo comporta una situazione problematica nei rapporti. L’ansia cronica impedisce di provare amore, gioia, emozioni positive e di godere della vita, diventa la padrona della nostra vita (ibidem).

Nella comparsa dell’ansia c’è un ruolo importante dello stress. Infatti, quando la tensione è prolungata nel tempo si produce uno squilibrio che porta al sorgere dello stress.

L’autore che viene considerato come il padre della ricerca sullo stress è Hans Selye, il quale si allontanò dallo studio dei segni e dei sintomi della malattia per soffermarsi sulle reazioni universali dei pazienti alla malattia. I suoi studi hanno influenzato diversi campi tra cui l’endocrinologia e la psicoendocrinologia. Secondo Selye (1936) la reazione di stress è indipendente dalla natura dello stimolo, è una risposta aspecifica dell’organismo attivata ad ogni richiesta dell’ambiente. Lo stress può essere attivato da fattori fisici, infettivi, psichici e indipendentemente dal tipo di fattore stressante viene attivata una reazione neuroendocrina e neurovegetativa che libera ormoni e neurotrasmettitori delle surrenali, quindi ad essere oggetto di osservazione è la reazione, non lo stimolo che l’ha provocata. Negò che la reazione potesse essere ricondotta ad un’unica causa, teorizzò così la “sindrome Generale di Adattamento (GAS)”

Questa sua osservazione riguardo lo stress iniziò quando durante il suo primo anno alla facoltà di medicina dell’Università di Praga osservò che i pazienti avevano spesso disturbi in comune anche se avevano malattie diverse (Tan A. Y., Yip A., 2018). Ciò che i suoi insegnanti trasmettevano era il principio per cui segni e sintomi erano correlati e specifici a una particolare malattia, le diagnosi erano fatte sulla base della storia di presentazione dei pazienti e dei risultati fisici, ma venivano ignorate le segnalazioni di malessere che tutti i pazienti mostravano di avere in comune (aspetto stanco, assenza di appetito, perdita di peso, non avere l’umore giusto per andare a lavorare). Selye chiamò questi malesseri “sindrome del semplice star male” e dopo dieci anni incominciò ad indagare. Nei suoi esperimenti sugli animali (Selye, 1957), sugli ormoni ovarici e su situazioni stressanti in laboratorio, osservò come se sottoposti a stimoli diversi manifestavano una comune reazione caratterizzata da ipertrofia corticosurrenale, atrofia del timo e delle ghiandole linfatiche, ulcere gastriche e ha collegato l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene al modo in cui il corpo affronta lo stress stabilendo una relazione tra lo stimolo esterno pericoloso o minaccioso e la reazione biologica interna dell’organismo. La reazione coinvolgeva tutti i sistemi vitali dell’organismo secondo uno sforzo generalizzato per adattarsi alle nuove condizioni, essa permette all’organismo di sopravvivere. Selye (1956) non ritenne tutto lo stress negativo, al contrario, infatti distinse in eustress e distress, in cui nel primo caso l’individuo si trova in una situazione che riesce a gestire e si sente soddisfatto provando una forma di piacere, nel secondo caso la persona si trova di fronte all’impossibilità di rispondere alle richieste dell’ambiente con ricadute negative sulla sua salute. Quindi, esiste uno stress acuto (breve resistenza con ritorno alla normalità) e uno cronico (resistenza che può durare da qualche ora a molti anni), Selye definì quest’ultima situazione, come già anticipato, “sindrome generale di adattamento”.

La risposta allo stress avviene secondo tre fasi: una prima fase di allarme, una seconda fase di resistenza e una terza fase di esaurimento (Giusti, Di Fazio, 2008; Marini, Fossati, 2021).

Nella prima fase di allarme si mettono in moto tutte le risorse disponibili dell’organismo per l’azione, secernendo ormoni in grado di provocare cambiamenti necessari nelle funzioni organiche. Viene prodotta l’adrenalina e una accelerazione del battito cardiaco, indipendentemente dal tipo di fattore scatenante. Inoltre, c’è una produzione di betaendorfine, antidolorifici naturali che aumentano la soglia del dolore così da rendere sostenibile lo sforzo e la tensione emotiva. Viene anche inibito il funzionamento dell’apparato digerente e invece stimolato quello vascolare, muscolare liscio e ghiandolare. Il corpo, quindi si prepara al pericolo mediante una tensione muscolare-nervosa, attivazione ortosimpatica del sistema nervoso autonomo con aumento della reattività cardiomuscolare.

Nella seconda fase di resistenza l’organismo si adatta all’azione esterna e all’impatto immediato dello stress, abbiamo il permanere della reazione da stress fino a quando non scompare il fattore stressante. C’è una sovraproduzione di cortisolo, viene rilasciata l’energia accumulata sotto forma di grasso grazie a questo ormone prodotto dal surrene su impulso del cervello. Una fase di resistenza cronica causa un indebolimento delle difese immunitarie anche fino alla loro soppressione, quindi compaiono malattie virali, batteriche e malattie autoimmuni. Una prolungata resistenza allo stress danneggia il sistema immunitario, in particolare la ghiandola Timo che viene attivata entro quarantotto ore dall’inizio di una reazione di stress acuto e si riduce nelle dimensioni annullando l’efficacia di linfociti B e T.

Nella terza fase di esaurimento c’è la cessazione dell’attivazione. Se nella fase di resistenza la persona non ha consumato tutte le sue risorse questa fase viene vissuta con un calo di energia associata ad un sollievo e torpore, mentre se la fase precedente è durata troppo avvengono dei cali debilitanti dell’organismo e un lungo periodo di recupero, infatti le ghiandole surrenali non riescono più a secernere la quantità richiesta di cortisolo, il cui livello si abbassa fino appunto all’esaurimento.

Le teorie di Selye furono contestate da Richard Lazarus (1999), che ritenne gli stressor fisiologici e psicologici non fossero sovrapponibili. In particolare quelli psichici hanno bisogno della mediazione della mente e quelli fisiologici hanno un impatto minore rispetto quelli psichici e secondo lui attivano sistemi diversi. Inoltre, secondo Lazarus (1999, p. 48) “Selye non ci aiuta a comprendere la via con cui gli stress psicologici lavorano, ci dice solo come influenzano il corpo”. Nel 1966 Lazarus spostò l’attenzione della ricerca dai processi fisiologici ai processi interattivi tra individuo e ambiente e alle capacità di coping che la persona mette in atto per fronteggiare le pressioni dell’ambiente. Il soggetto di fronte agli stimoli ambientali mette in atto processi mentali che associano uno stimolo ad un significato personale, non c’è per Lazarus un’oggettività dell’evento stressante ma la valutazione del soggetto in base al suo sistema percettivo e valoriale, solo dopo l’individuo realizza attività di coping, cioè attua strategie cognitive al fine di adattarsi all’ambiente.

Lazarus, con la collaborazione di Folkman, (1984) elaborò due tipi di coping: quello delle emozioni e quello del problema. Con il primo gli autori indicavano un’attività cognitiva che si propone la riduzione del carico della minaccia proveniente dall’esterno mediante una rivalutazione e una reinterpretazione, non interviene sul problema ma solo sulla parte cognitiva. Con il secondo essi indicavano un intervento mirato sulla minaccia stessa, ridimensionandola e cercando la strategia migliore per gestirla. Quindi, gli autori, mettendo in luce i meccanismi cognitivi alla base della risposta allo stress che si basano sul sistema valoriale della persona, sui suoi obiettivi, sulle idee che ha di sé e del mondo, diedero vita al concetto di stress psicologico.

La chiave sta proprio nei nostri pensieri, è necessario imparare a scartare dalla mente ciò che intossica le proprie emozioni.

Inoltre, la spiegazione, non va mai intesa in senso unico, perché ci sono vari fattori di cui tener conto: la predisposizione genetica, l’educazione in età infantile, i conflitti interni, l’ansia come reazione appresa, i fattori fisici, il parlare con se stessi, la capacità di misurarsi con l’esterno e gli agenti sociali

È proprio l’incapacità di vivere il presente, vagando con la mente nel passato o nel futuro, a scatenare l’ansia. La soluzione consiste, nel vivere pienamente e con consapevolezza il presente, in questo modo neutralizziamo l’ansia, che non ha più ragione di esistere e, nel caso ci fosse bisogno di un aiuto più professionale di tipo psicologico, a prenderne atto.

 

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